DOPO 40 ANNI DALL’ESPOSIZIONE DI ANTONI TÀPIES A PALAZZO REALE NEL 1985, LE OPERE DELL’ARTISTA CATALANO TORNANO A MILANO GRAZIE ALLA GALLERIA GRACIS E AL CURATORE LUCA MASSIMO BARBERO STUDIOSO E CRITICO D’ARTE
Ricorre quest’anno il centenario della nascita del grande maestro catalano Antoni Tàpies (Barcellona, 1923-2012) e per l’occasione è in corso fino al prossimo 31 marzo Segno | Memoria | Materia, la mostra personale curata da Luca Massimo Barbero alla Galleria Gracis di Milano nella sede di Piazza Castello.
Per mettere ordine nell’arte del Novecento e comprendere dell’importanza odierna di uno dei più grandi interpreti dell’arte informale europea, bisogna ripercorre la pratica artistica di Antoni Tàpies, tra i maggiori protagonisti del secondo dopoguerra spagnolo, attraverso 23 opere dal 1959 al 2006 che hanno trovato un dispiegamento mai conciliante né pacificato nell’indagine sul segno, sulla materia e sulla memoria.
Antoni Tàpies nasce a Barcellona il 13 dicembre 1923, figlio di Josep Tàpies Mestres e Maria Puig Guerra. Durante la sua infanzia visse in un ambiente sociale e culturale segnato, in larga misura, dall’amicizia del padre con personaggi di spicco della vita pubblica e del repubblicanesimo catalano dell’epoca, dall’intensa attività civile e politica del nonno materno. Questa famiglia borghese, colta e immersa fin dalla metà dell’800 nella tradizione dell’editoria e del libraio, risvegliò nel giovane artista presto l’amore per i libri e per la lettura. Queste circostanze familiari forniscono una straordinaria opportunità fin dalla tenera età di leggere, tra gli altri, Nietzsche, Stendhal, Maupassant, Proust, Wilde e Sartre.
Due aspetti significativi segnano rispettivamente l’inizio e la fine della sua adolescenza. Da un lato, la guerra civile spagnola (1936-1939) e il suo esito segnano profondamente molti aspetti della sua successiva carriera e imprimono uno spirito di ribellione che è già nei suoi primi tentativi artistici. D’altra parte, la malattia e la successiva convalescenza che, nell’arco di due anni (1942-1943), lo portano alla riflessione, alla lettura, alla musica, al contatto con la natura e ad un regolare esercizio di disegno e pittura, plasmandone definitivamente la sua vocazione. L’interesse per l’arte contemporanea, nello specifico, si risveglia in lui molto presto, soprattutto quando nel 1934 riceve un numero speciale della rivista D’Ací i d’Allà dedicato alle avanguardie artistiche del XX secolo.
Tàpies fa parte della tradizione degli artisti occidentali che dalla fine del XIX secolo usano la scrittura per esprimere le proprie teorie artistiche. Nel corso della sua vita pubblica sette volumi, cinque dei quali sono una selezione di articoli divulgati da stampa e media. In questo senso Antoni Tàpies, in quanto collaboratore assiduo di alcune delle testate d’informazione più importanti del suo Paese, coltiva la scrittura in modo attivo e regolare, esprimendo le sue opinioni su quei temi che ritiene rilevanti. Pur pensando costantemente all’arte – lo ha ripetuto in più occasioni – Tàpies non ha voluto scrivere un libro dove fosse raccolta la sua concezione estetica o la sua filosofia dell’arte: «Nella nostra epoca di crisi generale, il migliore dei sistemi è secondo me di non adottarne alcuno. Nelle mie mani poi una teoria dell’arte non durerebbe a lungo».
Tra le questioni che l’artista affronta in più articoli possiamo evidenziare la questione del significato dell’arte, un tentativo di avvicinarsi alla figura dell’artista, e i legami tra arte e spiritualità. Considerando il contesto sociopolitico in cui cresce, la libertà è tra i temi prioritari che Tàpies concepisce in più sensi: la libertà produttiva della sensibilità, la libertà di creazione, la libertà dello spettatore e, naturalmente, la libertà politica. Lo stesso L’Arte contro l’estetica, pubblicato nel maggio 1974, è un grido a favore dell’indipendenza dell’arte rispetto alla teoria estetica. In questi scritti di Tàpies, la funzione sociale dell’arte si pone come strumento di emancipazione per una cittadinanza che è saldamente nelle mani del regime franchista. Tàpies rifiuta ogni tentativo di ridurre il ruolo dell’artista a mero comunicatore inteso come colui che riproduce il discorso generato anche da pensatori e scrittori. L’artista deve trovare una propria voce che lo definisca ed è necessario stabilire le relazioni tra questa personalità e la funzione sociale dell’arte, per accompagnare il partecipante nello svelamento della realtà. Il pittore catalano è molto sensibile ai postulati espressi da Kandinsky e Dubuffet che considerano la pittura un modo per accedere a una profonda conoscenza della realtà.
In questa direzione, artista e partecipante devono condividere un livello culturale che renda possibile la comunicazione dell’esperienza artistica, poiché l’arte moderna e progressista richiede la partecipazione all’atto creativo. In questo senso, i suoi testi sono la toccante testimonianza di una critica alle istituzioni e alle politiche culturali, che, più attente alla promozione della produzione artistica, hanno messo da parte la formazione delle sensibilità. Parole come misticismo, energia, sentiero, Dio o meditazione riempiono i suoi scritti ma Tàpies non appartiene a nessuna religione, anche se l’artista ha una visione molto personale su questo tema, appunto influenzato dalle culture orientali, in particolare quelle di India, Cina e Giappone. Per il pittore catalano l’arte ha un significato vincolante e nel Novecento, nonostante la secolarizzazione, bisogna considerare l’arte moderna come quella che mantiene la forza spirituale e morale. La separazione tra arte sacra e arte profana non ha più senso, poiché la vera arte moderna è quella che incorpora visioni del mondo, simboli e miti che sono stati usati dai mistici di tutti i tempi. In questo contesto, l’opera d’arte dovrebbe essere valutata solo in termini di tono spirituale. Il contributo artistico di Antoni Tàpies può considerarsi come uno dei più notevoli della seconda metà del XX secolo per diversi decenni. La sua influenza trascende l’ambiente circostante e ancora oggi è una figura che gode di un riconoscimento internazionale.
Egli è un artista per il quale ciò che conta nell’azione poietica è il processo della materia. Materia che nelle sue opere porterà in sé innanzitutto le tracce impetuose del tragico momento storico e culturale che sale dalla profondità del suo inconscio: la vicenda del regime franchista. La morte del dittatore Francisco Franco nel 1975 segna infatti un cambiamento radicale nell’opera del pittore, in quanto il fango, i muri e tutti quei materiali che avvertono dei pericoli della dittatura vengono sostituiti da vernice per avvisarci ora del pericolo della tirannia del mercato, quella dei vecchi sistemi e quella dell’autocensura. Sono pochi i pittori che, come Antoni Tàpies, riescono a infondere alla materia inanimata un’irradiazione e una capacità di evocazione tanto intense. Attraverso il procedimento pittorico adottato, di fatto, l’arte di Tàpies vive della realtà sensoriale della materia usata che si avvolge di un’aura spirituale. La durezza dei suoi muri, uno dei motivi dominanti della sua opera, è data da incisioni, segni sulla superficie a strati sovrapposti, come se il tempo ed eventi passati avessero lasciato tracce rovinose di escoriazioni, accumuli, impronte che ci presentano una dimensione materica anonima che non si era mai espressa con così tanta forza e vigore prima nell’arte contemporanea.
Concedendo un breve cenno storico, riguardo la materia ricordiamo che si è imposta nell’arte a partire già dal 1910-1911 (collages cubisti, inserti dadaisti fino alla decontestualizzazione di Duchamp) ma il suo trionfo si realizza intorno alla metà degli anni Quaranta con le esperienze informali di Fautrier, Dubuffet, Burri, Pollock, klein… Quella dell’informale però è un’etichetta troppo ristretta per descrivere l’autentica frattura dai molteplici aspetti che ha aperto il nuovo corso dell’arte nella seconda metà del XX secolo. Da qui in poi l’atto operativo materico, rifiutando i problemi costruttivi e formali delle avanguardie europee dei primi decenni del secolo, s’immerge con la sua angoscia del segno e del gesto nel flusso del tempo, istituendo un nuovo rapporto di comunicazione col pubblico. Il fenomeno è chiaramente visibile in Tàpies nella particolarità della materia scomposta, scavata, trasmutata in modo da non essere più materia inerte, ma materia che risuona. Questa pittura che si fa dis-facendosi, s-vela l’azione dinamica di ricerca della verità del nostro artista che attiva e feconda strati e incrostazioni di luci e ombre di colore nei suoi dispositivi espansivi che scuotono la quiete inerme per donare un rinnovato vigore a tutte le cose, ora rese frementi. Ecco quel che Heidegger chiama Lichtung traducendo il greco Alétheia (verità). Vediamo più da vicino il tipo di processo che prende forma, quello che con Deleuze potremmo chiamare atto di creazione. Per Tàpies valgono le parole di Merleau-Ponty «l’artista lancia la sua opera come un uomo ha lanciato la prima parola, senza sapere se essa sarà qualcosa d’altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso di vita individuale in cui nasce…quanto l’artista sta per dire non c’è in nessun luogo, né nelle cose, che non sono ancora senso, né in lui stesso, nella sua vita informulata». La ricerca creativa, dunque, prende avvio dal nulla. È la prassi dell’arte che all’interno della quale nel nulla si comincia a tracciare, grazie al fare, quel sapere-in-divenire (inaugurato dalla Encyclopédie di Diderot) conquistato consapevolmente sul campo di battaglia dello spazio-tempo della tela, dove, qui in funzione di una pittura di materia e della materia, si modella pensiero e visione.
Tàpies non si limita a manipolare la materia ma lascia che questa si manifesti e nel manifestarsi riveli il proprio carattere spirituale, negando al contempo ogni rottura tra spirito e materia d’origine. Simbolo di questa negazione è la croce, elemento che torna frequentemente nella sua produzione, dove si integrano i contrari e dove l’attivo e il passivo si fecondano a vicenda, come una permanente riflessione sulla condizione umana. Tàpies pretende che chi si pone davanti alle sue opere le interpreti come manifesti, dichiarazioni e denunce, anche se – e in questo è vicino a Adorno – sa che l’arte non può trasmettere direttamente alcun messaggio politico. «Nella struttura della comunicazione artistica – afferma – le cose si sviluppano in modo un po’ diverso rispetto alla quotidianità. Nell’arte le cose esistono e nello stesso tempo non esistono, appaiono e scompaiono, si mescolano e stabiliscono nuove e magiche relazioni. Si partecipa ad un gioco di possibilità molto più ampio della realtà». Il modo peculiare di applicare la materia di Tàpies permette alla superficie del quadro di trasformarsi in una crosta di varia consistenza. Usa nel suo lavoro non solo la materia pittorica, ma anche materiali quotidiani e rifiuti, fino a perfezionare il miscuglio di polveri di marmo e colla. Evidentissima nella scelta dei materiali, la sovranità dell’artista si esercita nell’adozione di specifiche modalità compositive, di tipologie d’uso, di formule iconografiche trapiantate ripescandole nella memoria del passato. È in queste scelte – in questo processo – che si compie la selezione naturale delle idee.
«La tela – dice Tàpies – diventa improvvisamente come un campo di battaglia dove le ferite si moltiplicano infinitamente. Tutto si fonda in una pasta uniforme. L’occhio non percepisce più le differenze. Quello che era stato un’ardente ebollizione si trasforma in un silenzio immobile». Con parole come queste l’artista attrae l’attenzione sull’aspetto performativo del suo lavoro e sulla multimaterialità della sua prassi pittorica. Ci invita a concentrarci sul suo processo creativo, per scoprire quel qualcosa che manca o per proseguire nel nostro sguardo il gesto poietico dell’artista.
Ci invita ad entrare nel suo laboratorio, a tentare inventari dei materiali usati, della modalità della presentazione, delle tipologie pittoriche adottate, delle formule iconografiche che riusa e rilancia. Questo è il modo singolare di Tàpies di percepire in fretta la vita, la non indifferente natura – come intuisce Ejzenstejn -, per aprire un passaggio nuovo, per tradurre altri possibili in arte «…per quella linea retta – ci ricorda Rancière – che unisce percezione, emozione, comprensione e azione». «…Mi misi a lavorare con una intensità veramente estenuante: cominciai col fare un graffio sulla tela; poi un altro…mille altri. Questi graffi erano come ferite, come cicatrici che testimoniavano il mio sforzo, l’esuberanza della mia ossessione a voler concretizzare una forma sul quadro. Il risultato fu che l’opera produceva un effetto inquietante a causa della lotta materiale che rifletteva. Aveva l’aspetto di un muro rovinato o di una vecchia pergamena…Il muro, l’ho trovato sulla tela, di sorpresa, senza averlo cercato». «Se devo rendere conto del modo con cui ho preso coscienza, a poco a poco di questa potenza evocatrice delle immagini dei muri – scrive l’artista – occorre risalire a molto lontano. Sono ricordi che provengono dall’adolescenza e dai i miei anni giovanili stretti tra i muri, i muri dentro i quali ho vissuto le guerre (…). Nella città in cui avevo l’abitudine di considerarmi a casa mia tutti i muri recano la testimonianza del martirio del nostro popolo, gli arresti inumani che gli sono stati inflitti». I muri riferiti all’esperienza della Guerra civile in cui si assassinava, con i segni inumani che vi erano inflitti, ma anche i muri dei graffiti, dei poster, degli scritti aspiranti alla libertà, rappresentano sì la base del suo lavoro, dove la tela è un campo di battaglia con i colpi inflitti alla materia. La stessa predilezione per le tinte scure, in particolare per il grigio, testimonia l’espressione di un mondo abbandonato dal senso, corrispondendo alle parole di Adorno relative all’impossibilità di un’arte serena oggi. La stessa scrittura riportata nelle tele eccede in altro modo il suo significante rivelandosi come interruzione del silenzio e autentica manifestazione della tragedia e della catastrofe del mondo. «Gli spettatori dei suoi quadri gli chiedono spesso del significato dei frequenti muri, delle porte e delle finestre che appaiono nella sua opera. Di fronte a ciò egli risponde che ha realizzato molte meno porte, finestre e muri di quanti gliene vengono attribuiti». La sua risposta, in altri termini, invita a leggerli come qualcosa di più rispetto a dei semplici oggetti: «…conservano la loro realtà senza nulla perdere della loro carica archetipica e simbolica».
Nel suo lungo processo artistico, per tutti i segni e i gesti che pian piano danno luogo ad un quadro, nel segno cezanniano di motif, sperimenta limiti, manipola, amalgama e contamina la materia del mondo visibile nella propria totalità e pienezza assoluta, inoltrandosi nel senso nascosto attraverso cui le opere trascendono la loro oggettività e consentono di mettere in atto nel silenzio di un’aura inedita una contemplazione che com-prende una trasformazione. Ogni cosa afferma un vedere-attraverso immagini-segno in divenire, in grado di cogliere simultaneamente entro la campitura tessuta dal gioco invisibile di ritraimento e apparizione della realtà. L’impeto creativo comporta sia emozione che riflessione: «…un giorno ho tentato di arrivare direttamente al silenzio. Più rassegnato, mi sono sottomesso alla necessità che governa ogni lotta profonda. Le migliaia di graffiature si sono tramutate in migliaia di granelli di polvere, granelli di sabbia…Tutto un paesaggio nuovo come nella Traversata dello Specchio, mi si offrì all’improvviso, aprendomi l’essenza più intima delle cose».
È il silenzio a costituire il nucleo essenziale e la vera ragione dell’essere dell’opera di Tàpies. Un silenzio necessario perché la contemplazione strettamente in relazione alla prassi creativa dia i suoi frutti, ed è proprio il silenzio che percepiremo come fondamentale quando avremo dimenticato i dettagli, e conserveremo solo un’idea di quello che i suoi quadri contengono. Le opere di Tàpies non ci concedono alcun riposo, né cercano di dare piacere, ma ci rendono silenziosi e ciechi: negazione del mondo com’è per entrare nell’oscurità, nel vuoto dell’esistenza dove appunto sembra che si integrano i contrari e non possiamo più distinguere le cose tra loro. Dove l’arte e la vita si fecondano a vicenda! È un fatto che quasi tutte le opere di Tàpies ci fanno scoprire la realtà che abbiamo davanti ai nostri occhi senza poterla vedere.
A un livello più profondo, forme, segni, oggetti e accidenti della superficie acquistano un nuovo valore, e sembrano rinviarci a qualcosa che, si direbbe, sta fuori. «Riflettere sulla paglia o sul letame ha forse oggi una qualche importanza. Vuol dire meditare sulle cose primarie, sull’essenza della natura, sull’origine della forza e della vita». Si realizza quello che Paul Klee definisce il fine dell’arte: rendere visibile l’invisibile. Tàpies si rende conto che è necessario avanzare nell’esplorazione diretta della materia, che è necessario incorporare nella pittura, nel quadro, nella stessa materialità, che è necessario pensare l’opera come un tutto organico. «…Era necessario, dunque, andare oltre nella sperimentazione della percezione visiva e puramente pittorica, bisognava prescindere dall’idea di un codice, lanciarsi nel vuoto, con il solo obiettivo di cercare di rendere evidente quello che si cerca. Compresi anche che le possibilità di forme e colori sono infinite quando si esce da quello che si intende per geometrismo e si entra nel mondo incommensurabile dell’organico, di ciò che si chiama amorfo, dell’ambiguo, della macchia, dell’espressionismo, del puro gesto, della calligrafia…così come appresi della pittura cinese e giapponese. Però cominciai anche a rendermi conto che in quel nuovo linguaggio non erano state ancora esplorate (almeno non sufficientemente) le possibilità di un terzo elemento: la testura, che ugualmente poteva essere di una grande forza espressiva». Non sono né il colore, né la forma al centro del lavoro maturo di Tàpies. Piuttosto la trama che viene appunto teorizzata da Tàpies come terzo aspetto plastico. La trama e un modo – il modo personale di Tàpies – per dire il reale, in modo radicale è il suo modo di dire l’essenza come ciò che è già stato. L’artista invita il partecipante ad accedere a un livello di conoscenza più profondo; di fatto, attraverso il muro e attraverso il livello della materia sensibile, l’opera dischiude dal suo stesso interno una dimensione conoscitiva che in Adorno viene definita «…contenuto di verità, dove assistiamo alla negazione di ogni dualismo tra materia e forma, tra sfondo e figura, tra cielo e terra, tra corpo e spirito».
Picasso, Miró e Klee sono i riferimenti che più hanno influenzato il suo modo di concepire il mestiere: il valore dell’opera è condizionato dal valore umano dell’artista. La pittura è il proprio mondo e la propria maniera di esistere per un artista. Nello sforzo per avvicinarsi all’essenziale che esiste al di là delle manifestazioni delle cose, nel lungo lavoro per mostrare il primordiale al di là del contingente, l’arte, nel suo fare quotidiano, trasmette un mondo personale di idee e valori, del quale l’artista si alimenta e che hanno il loro pieno significato nella società. L’artista così si interroga sulla relazione tra l’arte e i diritti umani e la stretta dipendenza dell’opera d’arte dalla qualità morale dell’artista. Dall’azione congiunta di tutti questi ingredienti Tàpies inizia la costruzione di un linguaggio proprio che rivela una grande ricchezza sperimentale di tecniche per generare un’intensità espressiva che il partecipante non può eludere.
Gli anni intorno al Cinquanta segnano indubbiamente il momento più dirompente del percorso artistico del pittore catalano. È dal 1953 che nasce la solidità che caratterizza ciascuna delle immagini dell’universo di Antoni Tàpies, dove Pittura con Croce Rossa (1954) Grande pittura grigia (1955) Serranda metallica e violino (1956) Letto marrone (1960) Pittura sul telaio (1962) Nero con linea rossa (1963), «…solo per citare alcune delle sue manifestazioni pittoriche più significative che ci offrono una sintesi di stati d’animo, sensazioni e sentimenti, traumi e processi mentali che, comuni a lui e al mondo che lo circonda, costringendoci a una comprensione e una decodifica mai sufficientemente definitive. Non a caso, sulla superficie del quadro possiamo vedere, per esempio, un cappello, un piede, un letto o un corpo, insieme rappresentati e in rilievo, ma anche un pezzo di muro sul quale il tempo, gli agenti atmosferici e la mano dell’uomo hanno lasciato le loro impronte.
Un’intensa sensorialità che pretende di evocare realtà spirituali, tanto che si può dire che quel materiale è utilizzato per rendere visibile lo spirituale stesso».
Tutto fa credere che, con la sua utilizzazione di materiali esterni alla pittura – e non solo -, Tàpies abbia dato anche validi impulsi, nelle sue originali ricerche, a un artista tanto interessato alla solidità materica quale è Kiefer che, come Tàpies, apre lo spazio a una trascendenza che sembrava completamente svanita, dove nella fusione tra idea e materiali, tra testa e mano, tra attivo e passivo, si feconda così un mistero.
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