Marcel Proust, Esther Ferrer, Roman Opalka, Michael Wesely, Felix Gonzales Torres,
Giuseppe Penone, Douglas Gordon, Fabio Mauri, Christian Boltanski, Michelangelo Pistoletto
Il tempo lo si può misurare soltanto in maniera indiretta, e il susseguirsi di una sequenza di movimenti, spostamenti, modifiche, su corpi, oggetti, paesaggi, lascia la sensazione dello scorrere di questa forza invisibile.
Significativa appare la ricerca di molti artisti contemporanei che nel loro lavoro hanno provato non a rappresentare ma a presentare il tempo: osservandolo, marcando, sospendendo, condensando, o allungando il suo flusso.
Il lavoro di MARCEL PROUST è proprio questo cercare di raccontare il tempo attraverso il tempo, cioè utilizzare il tempo come strumento di racconto ma anche come materia del racconto. Alla ricerca del tempo perduto ha luogo in un tempo pubblico chiaramente identificabile, mentre il tempo personale del suo narratore si muove con un andamento irregolare, che è ripetutamente sfasato rispetto a quello degli altri personaggi ed è irriducibile ad ogni sistema di riferimento. Nella ricerca del tempo perduto il tempo pubblico saranno totalmente inutili, superficiali, poiché Proust impara a porsi in ascolto per captare le oscillazioni appena percettibili dei ricordi impressi nel suo corpo molto tempo prima e destinati a ripresentarsi a lui per vie imprevedibili e incantevoli.
Proust scrive: Gli spazi in cui viviamo ci avvolgono e scompaiono, come le acque del mare dopo che una nave le attraversa. Cercare l’essenza della vita nello spazio è come tentare di cercare il percorso della nave nell’acqua.: essa esiste soltanto come memoria del flusso del suo ininterrotto movimento nel tempo. Proust, Bergson e lo stesso Freud insistono che solo il passato è reale, che soltanto il recupero del passato può ispirare l’arte.
Il lavoro fotografico dell’artista basca ESTHER FERRER – artista concettuale molto nota nel panorama dell’arte performativa dagli anni Sessanta – è fondato, in gran parte, sul passare del tempo. La Ferrer utilizza il suo corpo ed il suo volto come modelli dominanti nella sua opera. Nella serie “Autoretrato en el tiempo” sono diversi gli autoritratti nei quali il volto dell’artista è ricomposto da due scatti realizzati a distanza di diversi anni uno dall’altro. In questo modo, l’artista mostra allo spettatore le sue riflessioni sul tempo che passa. Osservando questi ritratti composti, è stupefacente notare come il volto di una persona, nel caso specifico quello dell’artista, subisce con gli anni solo impercettibili variazioni.
L’opera ebbe inizio oltre venti anni fa, il cui primo risale al 1981 e l’ultimo al 2004, e consiste in una serie di autoscatti dell’artista realizzati a cadenza quinquennale, in bianco e nero, con lo stesso sfondo, la stessa luce, la stessa inquadratura e dove, nulla cambia, se non il passare degli anni sul viso di Esther Ferrer. Realizzati i ritratti e tagliati a metà in senso verticale l’artista li riunisce in un unico ritratto “dei doppi tempi”. Gli scatti di Autoretrato en el tiempo sorprendono particolarmente per gli esigui cambiamenti intercorsi nei 23 anni di distanza dal primo all’ultimo. Ferrer, ovviamente, non ha subito in questi anni nessun trattamento chirurgico ma solo il “trattamento” del normale scorrere del tempo. La serie Autoretrato en el tiempo è un work in progress, pertanto, l’artista continuerà questo lavoro negli anni a venire.
ROMAN OPALKA, artista franco-polacco, scomparso nel 2011, presenta l’idea del tempo che scorre e la sua capacità di consumare lentamente la vita dell’essere umano. L’artista riesce a fermare con il pennello lo scorrere del tempo, rendendo in immagini visive il consumo dell’opera d’arte, come mimesi della vita stessa. Roman Opałka ha dedicato la sua vita al tentativo di rappresentare qualcosa che non è misurabile – lo scorrere del tempo – riuscendo a restituirne forma visiva attraverso il numero come elemento base di una sequenza continua e potenzialmente infinita, che è coincisa con la sua esistenza.
Questo suo programma di lavoro è iniziato nel 1965: da quella data, infatti, Opałka comincia a contare da 1 all’infinito, e lo fa dipingendo sulla tela, con il pennello a punta fine, numeri in progressione fino a saturarne la superficie. La numerazione interrotta ricomincia su un’altra tela. Ogni quadro, intitolato Détail, ha rigorosamente lo stesso formato, che coincide con la dimensione della porta del suo studio. I numeri bianchi sono inizialmente dipinti su fondo grigio: un fondo grigio che l’artista, dopo aver dipinto il primo milione nel 1972, continua a sbiancare aggiungendo a ogni cambio di tela un 1% di bianco, fino ad annullare il contrasto necessario per la lettura dei numeri.
Opałka segue metodicamente il programma giorno dopo giorno, fino a quando il sopraggiungere della morte necessariamente ne interrompe il lavoro, lasciando l’ultimo quadro non finito. Nel 1968, a ogni Détail Opałka decide di abbinare un autoritratto fotografico in bianco e nero, scattato alla fine di ogni sessione di pittura del suo programma 1965 / 1-∞. Sono fotografie in cui l’artista cerca di mantenere fissi alcuni elementi: l’espressione, la distanza dall’obiettivo, lo sfondo e la camicia, per far emergere le trasformazioni “scultoree” sul suo volto, causate dallo scorrere del tempo, vero soggetto anche di questa serie.
Con MICHAEL WESELY il tempo finito che diventa infinito. La fotografia che si presta a catturare il segno del tempo in un unico luogo e che sembra invecchiare proprio come noi. Rivelando che è la luce quell’elemento che segna il costante passaggio che avviene normalmente nella vita. Tra la staticità della storia e la dinamicità del contemporaneo. Wesely Michael fotografo tedesco, dopo anni di studio sulla tecnica fotografica riesce a perfezionare un metodo di cattura delle immagini con lunghissime esposizioni che possono impiegare anche tre anni di tempo.
Attraverso particolari filtri e aperture molto piccole crea delle immagini uniche e suggestive dove il tempo viene catturato nello spazio. Per la maggior parte delle persone la fotografia è la cattura di un istante, un fermo immagine della propria vita. L’immagine rappresenta un momento fermo e immobile. Il lavoro di Michael Wesely si concentra proprio sul concetto del tempo creando immagini il cui tempo di esposizione della macchina fotografica può durare anche diversi anni. Proprio in queste immagini viene immortalato il passare del tempo che rimane registrato attraverso la demolizione e la ricostruzione di edifici, le vie, le automobili, il passaggio del sole e la vita che passa.
Michael Wesely è riuscito a sviluppare questa tecnica dopo numerosi fallimenti e nonostante le suggestive opere prodotte, afferma che non si può calcolare con precisione il tempo e il diaframma nelle esposizioni molto lunghe. Prima dello sviluppo non si può quindi sapere se il procedimento andrà a buon fine, di conseguenza l’immagine elaborata risulta sempre essere una sorpresa. La potenza di queste immagini non sta quindi nel prodotto finito, ma nell’intero processo.
Per la prima volta la fotografia riesce a catturare il segno del tempo in un unico luogo, abbatte le barriere della tecnica convenzionale e lascia entrare con forza l’immaginazione, l’indeterminato e l’ignoto nelle immagini. Ecco che l’esperimento tecnico diventa poetico e artistico. Le particolari fotografie contenenti i segni del tempo sembrano invecchiare proprio come noi, e “ogni immagine è un abisso che attende solo di essere guardato”. Un abisso in cui ogni piccolo elemento, ogni riflesso catturato forma in qualche modo l’illusione di ottenere una rappresentazione di “quel forte e dolce alito dell’universo che spandendosi tra le cose, le contamina invisibilmente”.
Infatti, l’utilizzo di un tempo di esposizione lungo permette un cambio di percezione dell’immagine. La visuale si evolve e quello che emerge nella riproduzione fotografica è una sorta di invisibilità, un qualcosa definito solo in modo frammentario che solo lo spettatore è in grado di completare. Questo permette alle immagini di essere in qualche modo aperte, senza limiti, in contrapposizione ai prodotti fotografici convenzionali conclusi e definiti. La funzione della fotografia viene spazzata via e ciò che resta sono i momenti che si sovrappongono uno all’altro e che diventano la rappresentazione della natura transitoria che ci circonda.
Le installazioni di FÉLIX GONZÁLEZ-TORRES scandiscono il tempo come riflessione sulla fragilità dell’esistenza umana. Il consumo della materia assume l’allegoria dello scorrere del tempo sul corpo umano e gli effetti che esso provoca. Da sempre studiato e conosciuto per la sua arte partecipativa, Felix González-Torres è da considerare anche il maestro del tempo. L’artista individua nella temporalità un vero e proprio recipiente di memorie, un tempo scandito dal ticchettio di due orologi o da due lampadine i cui fili s’intrecciano divenendo un tutt’uno.
Il numero due nei suoi lavori diventa ossessione e, contemporaneamente, presenza/assenza di un amore che lentamente si spegne. Il numero due rappresenta da sempre l’unione di due elementi, pertanto è comunemente considerato come il numero delle relazioni di coppia, in González-Torres è una presenza velata ma costante. Il riferimento alla duplicità diventa per l’artista un leitmotiv e l’unico modo possibile per esprimere una temporalità che non ha specificità ma che sopravvive nel suo “qui ed ora”.
Nel lavoro di González-Torres ci troviamo spesso di fronte ad una presenza iconica in cui le immagini, attraverso l’assenza del corpo, prendono vita. L’assenza può essere temporanea o definitiva, come nel caso della morte. Lì, dove il corpo non c’è più, esiste «un’assenza visibile», che permette di trasformare l’assenza in una presenza. È un tempo che scivola continuamente via, quello di Felix González-Torres. Drammaticamente poetico, mette in scena una straziante visione personale dell’amore, quello per il suo compagno, in un tentativo di esorcizzare la morte attraverso la presenza/assenza di un corpo effimero che gradualmente scompare dalla vista ma che resta ben saldo nelle forme e nell’essenza.
Tra i protagonisti più significativi del movimento dell’Arte Povera tra gli anni Sessanta e Settanta, GIUSEPPE PENONE ha riportato il rapporto tra uomo e natura al centro della ricerca artistica contemporanea. I temi trattati più frequentemente nelle sue opere sono la crescita degli organismi vegetali come fossero plasmati dal tempo, la distinzione tra identità e identicità e il concetto di impronta come confine tra interno ed esterno, tra corpo e natura.
Il rapporto tra vuoti e pieni è, in sostanza, un processo di modificazione, una metafora che rimanda ulteriormente allo scorrere del tempo e all’alternarsi dei cicli della natura. Il presente che dunque agisce sul passato, oppure lo scava per portarlo a galla: l’azione di Penone è simbolo del tempo che scorre. Il tempo che rende fluido e plasmabile la materia naturale e che veicola l’idea di un’equivalenza tra azione dell’uomo e azione della natura.
Penone scrive: “Gli alberi ci appaiono solidi, ma se li osserviamo attraverso il tempo, nella loro crescita, diventano una materia fluida e plasmabile”, Il tempo dimostra chiaramente l’inesistenza di una divisione tra uomo e natura, tra attività dell’uomo e attività della natura. Il fattore del tempo è indispensabile per queste opere, dove il tempo della vita vegetale e il tempo della vita umana sono in stretta relazione. Le opere si sviluppano in un tempo riferibile ai processi naturali, ai tempi geologici, infiniti.
Ancora Penone riguardo il tempo nel suo lavoro dichiara: “Già nei miei primi lavori prendevo in considerazione la crescita dell’albero come una proiezione nei confronti del futuro. Il tempo va tenuto presente in ogni opera visiva, se non altro per far sì che essa abbia una durata, che non è soltanto una qualità che fa piacere al mercato, ma che è legata al senso stesso del lavoro. Se si scrive un libro, questo viene diffuso attraverso le edizioni presenti e future e conserva tutte le sue parti. Se si fa musica, può essere immediatamente diffusa. La scultura occupa uno spazio fisico che costringe le persone a spostarsi dai loro rispettivi spazi per vedere l’opera e per fare ciò c’è bisogno di molto tempo. Per essere vista da milioni di persone l’opera deve avere una resistenza fisica. In tal senso diventa assai importante il problema del materiale e della sua durata.”
DOUGLAS GORDON distorce il tempo e il linguaggio per disorientare e sfidare, in gioco c’è la disponibilità ad accogliere una nuova funzione dell’opera nel nostro immaginario collettivo ed una rilettura della stessa. La manipolazione del tempo narrativo, per esempio, del famosissimo Psycho di Hitchcock, dilatando i 109 minuti previsti dalla pellicola fino all’insostenibile durata di 24 ore, messa in atto per perturbare la percezione del tempo e dello spazio reali, quelli “rappresentati” dal video e quelli “reali” che accolgono lo spettatore.
Il tempo è complice di un lavoro di estremo realismo (disponibilità di ogni dettaglio) e al contempo di stupefacente surrealismo (estraniazione e reinvenzione).
Gordon scrive: “Molto di ciò proviene dal lavoro di ‘performance’ che ero solito fare da studente quando ero molto influenzato da Alastair MacLennan. Ricordo che a Riverside, in occasione della “National Review of Live Art” in cui io mi esibivo con due amici di Glasgow ed eravamo al piano superiore mentre ci muovevamo molto lentamente, Alastair era sotto le scale e si muoveva ancora più lentamente. La cosa grande era che si trattava di una cosa molto semplice fatta con una doppia velocità – cosa di cui ero più consapevole quando la vedevo piuttosto che quando la eseguivo in una performance. Gran parte dei films tentano di rappresentare la velocità a cui noi viviamo – e noi tutti viviamo con una relativa velocità a meno che uno non si trovi in uno stato di narcosi in cui ciò non accade, cosa che è ugualmente interessante. Con la ‘performance’ di Alastair tu diventavi molto consapevole della differenza tra le due velocità e del modo in cui ciò influenzava il tuo processo cognitivo, la tua interazione fisica con gli oggetti. Penso che questa sia una delle cose che probabilmente c’era dietro “24 Hour Psycho”, il modo in cui la gente si comporta nello spazio con un’immagine che lo sta muovendo velocemente.”
Time Machine: To See and to Experiment the Time è una riflessione su come il cinema e altri media basati su immagini in movimento hanno trasformato la nostra percezione del tempo nel corso della storia. Potremmo vedere nel “tempo” di Gordon, così come nel suo lavoro complessivo, una poetica del “perturbante”: perturbare ciò che è assodato, scontato, non problematico, facendo emergere dal suo interno, dal suo stesso cuore un contenuto imprevisto, forse latente, di certo inquietante.
FABIO MAURI (1926-2009), indiscusso protagonista della ricerca artistica degli anni Sessanta ed oggi riconosciuto maestro a livello internazionale. Fabio Mauri ha avuto questa intuizione: più che giudicare, bisogna vivere, sentire e constatare. Per farlo, bisogna rivelare un tempo per ciò che era ed arte nell’intensità dell’umiliazione e del dolore.
Artista impegnato e tormentato, Fabio Mauri presenta già negli Anni Cinquanta il fallimento dell’ideologia, e la sua riflessione sul tempo ha un carattere storicista, esplicato attraverso opere concettuali che documentano per metafora il vuoto esistenziale che i drammi del Novecento (compresa la Guerra Fredda) hanno lasciato nella coscienza dell’umanità.
Il tempo assume la statura di “successione di fatti storici”, impalpabile movimento di idee, di stragi, di sangue. Quegli schermi vuoti, quel senso di non novità dei suoi lavori, spiegano la stanchezza morale del “dopo ideologia”. È un tempo assoluto in cui il tempo relativo dell’uomo del Novecento non può essere che quello segnato dal crollo delle certezze.
Mauri si interroga sull’uomo e sulla sua natura alla luce della recente tragica memoria della guerra e delle pratiche ideologiche oppressive. Tra i suoi lavori: Il televisore che piange (1972), opera anticipatrice della sua ricerca sui mass media e sui temi della società della comunicazione; Senza tempo (1995), Non ero nuovo (2009), The End (2009) e Schermo: Senza Tempo. Oggetti e azioni senza tempo per essere in ogni tempo …
Gli oggetti sono al di là del tempo. Portano i segni del tempo in cui nascono, ma sopravvivono intatti al tempo della vita, di chi esiste. L’arte li usa in questo senso. Dialettizzare il tempo della memoria storica con l’attualità per rendere più credibile l’assunto.
La ricerca di CHRISTIAN BOLTANSKI è una partita a scacchi con il tempo, persa in partenza.
L’artista francese scrive: “Le domande importanti sono poche e una di queste è: perché non possiamo fermare il tempo? Io cerco di preservare il tempo, il ricordo, ma fallisco tutte le volte, consapevolmente. Sull’isola di Teshima, in Giappone, ho raccolto le registrazioni di migliaia e migliaia di battiti cardiaci di singole persone. Ma loro non sono e non saranno mai lì. Presto quell’isola sarà solo un archivio di fantasmi. Ognuno è unico, ma destinato a sparire velocemente“.
Un lavoro basato sulla morte, sull’incapacità di definire le cose e il tempo che inesorabilmente fluisce e in cui la memoria e il ricordo divengono i segni, le tracce, del fragile e instabile passaggio dell’uomo. Combinando la memoria individuale e collettiva con una riflessione sempre più in profondità su riti e codici sociali, Boltanski sviluppa da mezzo secolo un’opera sensibile e corrosiva, come uno stato di veglia lucida sulle nostre culture, le loro illusioni e disillusioni.
Un lavoro lungo fino ai giorni nostri dedicato alla dimensione temporale, al trascorrere del tempo e alla sua percezione: non sviluppo storico, ma fragile e instabile passaggio, fine inesorabile e scorrere decadente. È la sensazione del passaggio, della precarietà effimera dell’esistenza, è la domanda insoluta sul senso della nostra presenza. Il tempo – che siano pochi giorni o una vita intera – avvalora l’intento di documentare la realtà quale essa sia, comune, quotidiana, ripetitiva, assumendo il sapore della Memoria.
Sin dai suoi inizi nel 1967, Boltanski ha esaminato attentamente la vita degli uomini e cosa che rimane dopo la morte, dopo che hanno avuto il loro giorno. Usando l’inventario e l’archivio, utilizza gli album fotografici veri o fittizi come ricordi infanzia, un tentativo di ricostruire la vita degli esseri catturati nell’anonimato della loro scomparsa. Attraverso “piccole storie”, l’artista mette in evidenza tutti e nessuno, e si concentra nella creazione di una fragile e inquietante memoria collettiva dell’umanità.
L’effimero governa tutto il lavoro e l’uso di elementi dedicati a conservazione, come le scatole di metallo o delle vetrine, diventa un vocabolario ricorrente al centro delle sue prime opere. La pratica di Boltanski riconcilia così la banalità di ogni azione con il desiderio di permanenza e conservazione propria di tutte le civilizzazioni. Attesta anche la determinazione con cui l’arte cerca di afferrare la vita e combattere l’oblio.
L’arte di Boltanski è prima di tutto un’arte del passare del tempo. Dal 1984, le sue opere si staccano dall’ironia e diventano più cupe, più scure; tendono a mostrare, quasi in modo corale, le strutture artificiali per affrontare la morte. Gli anni ’90 hanno visto il suo lavoro spostarsi sempre più verso la ricerca di miti e leggende attingendo dall’immaginario collettivo.
Nei suoi lavori più recenti, Boltanski esplora la fatalità e mette in discussione “la possibilità” costruendo dispositivi in cui la vita diventa sempre più una lotteria. Ancora più vicino a noi, le immense installazioni immersive dell’artista si confrontano con gli spazi alla fine del mondo, dove egli ama andare, in questo caso la Patagonia, cercando miti sepolti che diventano il supporto delle sue stesse installazioni. “L’arte è un artificio, una bugia. Ma è fatta per porsi domande e dare emozioni. E questo ha a che vedere con la verità”, spiega Boltanski.
MICHELANGELO PISTOLETTO. “L’uomo dipinto veniva avanti come vivo nello spazio vivo dell’ambiente, ma il vero protagonista era il rapporto d’istantaneità che si creava tra lo spettatore, il suo riflesso e la figura dipinta, in un movimento sempre presente che concentrava in sé il passato e il futuro tanto da far dubitare della loro esistenza: era la dimensione del tempo”.
Nel 1961 (cifra al suo interno speculare), è l’anno del primo dipinto specchiante battezzato “il Presente”. Con questo titolo, dunque, Pistoletto definisce la condizione temporale che il suo quadro vive ed offre, suggerendo indirettamente che in arte non vi è posto per un’altra dimensione nel tempo oltre quella del movimento sempre “presente” in cui si opera.
Con un percorso di creazione artistica e di ricerca teorica che dura ormai da più di 50 anni, Michelangelo Pistoletto, si può considerare uno degli artisti più completi e affascinanti dell’era contemporanea. Protagonista indiscusso della seconda metà del Novecento, dall’ideazione dei quadri specchianti all’esperienza dell’arte povera, e della prima decade del ventunesimo secolo, dove il concetto di arte per la trasformazione sociale ha assunto le forme del Tavolo Mediterraneo e del Terzo Paradiso.
Lo specchio è l’elemento generatore del pensiero creativo di Pistoletto in rapporto alla realtà. Nello specchio il passato si presenta davanti ai nostri occhi e il futuro è alle spalle. Ma entrambe quelle dimensioni temporali sono compresenti nello specchio e nessuno può non accorgersene, con la conseguenza della necessità di considerarle entrambe in ogni momento della nostra vita.
“Nel quadro specchiante la dinamica fenomenologica consiste nel rapporto tra gli estremi: cioè l’estrema staticità della figura fissata e l’estrema dinamica delle figure in movimento intorno alla figura fissata. Quindi da questi due estremi nascono gli incontri di tutti gli altri termini opposti: fronte/retro, assoluto/relativo, ordine/caos, passato/presente/futuro; c’è un incontro continuo di termini opposti nel quadro specchiante, ma questo avviene non per mia descrizione, per descrizione volontaristica, ma per effetto metodologico. Quindi il quadro è diventato un fenomeno e non una proposta emotiva o intellettuale e soprattutto non è personalistico, individualistico, non è soggettivo, non c’è nulla di soggettivo nei miei quadri specchianti. La soggettività consisteva nel concetto di esistenza, di identità personale, ma come coscienza di sé e nello stesso tempo incoscienza del sé. Sapere di esistere, ma non sapere tutto quello che concerne il fenomeno esistenza. Quindi per me questo è stato il lavoro che ha preceduto i quadri specchianti.
Il “dispositivo dei quadri specchianti” innescano un processo fenomenologico di relazione simultanea tra tutte le componenti esistenti in un dato ambiente che cadono nell’azione riflettente dell’opera. I quadri specchianti in quanto presente continuo sintetizzano la tripartita divisione tradizionale del tempo nell’unidimensionale tempo dia-sincronico. La loro azione è dinamica e il tipo di spazio che determina scavalca quello ordinario bidimensionale della pittura tradizionale per giungere a una dimensione di transito tra questa, la scultura e persino l’architettura.
Essi insistono con le regole dell’arte sul versante della vita. Pur essendo modelli di spazio, la loro capacità di dilazione ed assorbimento è la dinamica stessa della vita in presenza dell’arte. La forte carica di attrazione che esercitano sull’osservatore i quadri specchianti è in gran parte dovuta al contrasto reso evidente tra l’immagine del passato, quale si viene a manifestare nella sua condensata e statica sembianza di un istante di vita che la foto ha bloccato, e l’immagine del presente, vivo e dispiegato nel suo moto, come la superficie riflettente rispecchia e testimonia.
La fotografia è l’amo che pesca e porta ad emergere in superficie un istante e una forma della vita dalla grande massa d’oblio in cui il tempo e il «passato» sembrano inghiottirla. Come la memoria, più del ricordo, la fotografia ha la facoltà di mettere in rapporto con il passato e col presente e, come il ricordo e la memoria, riproduce il passato che ha pure una «Vita» che la fotografia sembra non disperdere. Il ricordo e la memoria sembrano contenere in sé una conoscenza tanto che riconoscere taluno – come dice Minkowski – «equivale a sapere che lo si è visto precedentemente». La conoscenza fotografica allora è riconoscimento del tempo nell’istante in cui lo si è fermato catturando le forme in esso vive mentre la luce le investiva.
La fotografia, dunque, è anche memoria della presenza manifesta della luce nel tempo in cui essa bagna i corpi, si riflette su di essi. Allo stesso modo il fondo specchiante dei quadri di Pistoletto è la struttura pittorica su cui la luce nell’investire e bagnare di sé le forme del reale si riflette e riflette noi al vivo con essa. La figura reale e quella fotografica entrambe sorprese assieme alla luce pur vivendo due tempi splendono nel flusso simbiotico di essa.
La trasformazione della tela in specchio è avvenuta attraverso l’insistente lavoro sull’autoritratto. Me stesso come persona, come immagine e quindi la mia immagine è entrata nella sfera del noi quando la tela si è trasformata in specchio e quindi tutti gli altri esseri sono entrati nella stessa opera insieme all’autore: è iniziata una pluriautorialità. Autorialità voluta o non voluta, ma la risposta dell’essere sull’essere è avvenuta proprio in questo senso: io sono, noi siamo, essi sono, il verbo essere si è coniugato nella sua completezza. Lo specchio ha portato questa dinamica del rapporto tra i tempi diversi che sono il passato, il presente e il futuro. Il presente è fugace, consuma il futuro e produce un passato che però consuma il presente.”
Ogni immagine che Pistoletto posa sul quadro, che è un’immagine fotografica, non può essere altro che memoria di un momento, la fotografia è sempre memoria e quindi questa memoria sposta il presente verso un momento diverso che viene poi però reinserito nel presente che consuma il futuro… è tutto un andare dal futuro al passato attraverso il presente che crea tutto e distrugge tutto.
Questa è la fenomenologia di fondo del quadro specchiante dove la società entra nell’opera e passo dopo passo viene avanti il discorso della collaborazione, della cooperazione creativa, della responsabilità comune, cercando di trarre ispirazione, insegnamento dal quadro specchiante. È come guardare a una scoperta scientifica e trarre le conclusioni portando questa scoperta nella pratica. Pezzo per pezzo il dinamismo del quadro specchiante diventa tridimensionale, entra nella quotidianità.
Queste opere sono sempre precedute da un dubbio fondamentale sull’idea di fissabilità o meglio sulla fissabilità dell’idea. Tale dubbio si manifesta nella scelta dei materiali quale espressione di un mondo in costante mutamento (come l’utilizzazione dello specchio, quale mezzo sempre riflettente, la cui ragione di vita è di accettare le immagini soltanto come apparizioni passeggere ed effimere.
Determinato a non voler trattenere un’immagine, lo specchio fa subito posto alla successiva). Di conseguenza, la rinuncia a trattenere un’immagine specifica come dimensione ideale, offre la possibilità al tempo di affermarsi come dimensione figurativa, come mezzo. La trasposizione in una dimensione temporale dell’idea di immagine caratterizza quest’ultima sempre e soltanto come frammento spazio-temporale.
Di fatto, ciò che viene riprodotto è la partecipazione dell’immagine a un processo temporale che si sottrae nella sua totalità a qualunque riproducibilità. Siamo di fronte a un’immagine che continua a esistere perché fallisce nel suo tentativo di farsi definire.
I quadri specchianti, I plexiglas, gli Oggetti in meno, Lo Zoo costituiscono i momenti salienti di quell’attitudine che, via via, nel tempo si è sviluppata e dopo trent’anni, approda al Progetto Arte, al Tavolo Mediterraneo e al Terzo Paradiso…È dentro tale riflessione artistica che il processo di Pistoletto va dunque considerato: dietro ad ogni porta varcata scorgiamo una mirabile circolarità temporale e poetica che muove da uno stato di disagio vissuto in questi anni conseguente ad una situazione di effettiva crisi culturale, ancor prima che economico-sociale, a scala mondiale.
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