Protagonista della mostra-evento tenutasi al Palazzo Ducale di Venezia dal 26 marzo 2022 al 6 gennaio 2023, l’artista ci ha accompagnato in un itinerario estetico che affonda le radici nella filosofia.
Allestita – sotto i riflettori globali – a breve distanza dalla 59esima Biennale d’Arte nella Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale di Venezia,la mostra di Anselm Kiefer (Donaueschingen, 1945), è destinata a lasciare un segno di grande rilievo:
Il titolo di questa critica estetica-filosofica su uno degli artisti fondamentali degli ultimi decenni, nasce dal grande successo di un poderoso intervento site-specific su un luogo simbolo della vita politica e culturale della Serenissima.
Da subito, però, denunciamo onestamente che comprendere il senso e l’origine delle opere d’arte di Kiefer attraverso questo nostro scritto, è un’azione compromessa fin dalla prima battuta. Perché stiamo parlando di opere – innescate in un dialogo intimo ed eclatante con le opere di Bellini, Carpaccio, Veronese, Tiziano, Tintoretto esposte nell’ambiente in cui avveniva l’elezione del Doge – che comunicano il loro senso solo ponendo lo sguardo dal vivo.
Cercheremo, quindi, di vivere questa indagine con lo sguardo degli stessi artisti che cercano di raccogliere il testimone da maestri che hanno fatto del loro processo artistico un faro di luce, per approfondire e conoscere da vicino l’arte contemporanea, le opere, le poetiche e i numerosi e imprevedibili rimandi multidisciplinari che essa implica. Vale a dire per indagare il respiro del mondo che stiamo vivendo.
Il nostro sintetico confronto critico intende inseguire una determinazione, un percorso che ci pare di poter estrarre dai riferimenti delle interviste e dei testi che il nostro stesso artista ha disseminato nel suo cammino. Il nostro sarà un andare dal corpo alla mente allo spirito e in maniera sensibile incrociare nello stesso tempo una storia dell’arte che, partendo dalla domanda sul saper fare arte di Giorgio Vasari nel 1511, a cui si è aggiunta quella del saper pensare dell’arte di Hans Belting e Arthur C. Danto fin oltre il 900, senza alcuna iattanza vorremmo portare al XXI secolo intorno alla domanda saper essere dell’arte.
Abbiamo segnato quindi nel nostro taccuino d’artista le prime parole di questa mappa concettuale: corpo, mente e spirito, insieme a fare, pensare, essere.
Cominciamo, dunque, questo viaggio dicendo da subito che la genialità dell’opera di Kiefer è nella capacità di liberare le possibilità espressive del corpo della materia, indicando il punto esatto in cui l’arte si distingue dalla vita o, per l’esattezza, dove essa si differenzia dalla vita.
Tale distinzione è cruciale perché l’interpretazione e la tensione avvertita dagli artisti nei secoli verso la vita ha rivoluzionato le abitudini visive dell’osservatore e modellato, volta per volta, quell’effettivo intreccio di concetti, comportamenti e norme che costituiscono la condizione di esperienza attraverso le opere d’arte.
Ma vediamo più da vicino il tipo di processo creativo in Kiefer incentrato sulla materia, in grado di agire sull’individuo, che ci sveglia, ci scuote, ci fa aprire gli occhi verso una elevazione dal banale alienante della realtà verso una realtà superiore che Aristotele inquadra nel termine entelechia.
Il primo pezzo del nostro puzzle è il corpo, la materia. Tutto parte da lì e li finisce, con una luce nuova appunto. Siamo nella prima fase dell’atto creativo: il nulla. Quella che Kiefer chiama Putrefactio, dove tutto è e bisogna operare una scelta.
Secondo Kiefer ogni opera “…comincia nel buio, dopo un’esperienza intensa, uno choc; all’inizio è uno stimolo, un impulso (…), e poi eccomi tutto nella materia, senza prenderne le distanze; nel colore, nella sabbia, nell’argilla, nell’oscurità del momento (…)”.
Spesso è necessario lanciare un rampino per procedere, ma il più delle volte non si impiglia dove avremmo voluto. La ragione è che l’abbiamo lanciato nel nulla. Talvolta il nulla risponde e allora noi vi restiamo aggrappati senza sapere da dove proviene o quanto resisterà. Ignoriamo dove ci siamo aggrappati, ma ci reggiamo fermamente, per non precipitare nel vuoto.
La realizzazione di un quadro è un costante avanti-e-indietro tra il nulla e qualcosa. Attivata in virtù di un processo che “non segue nessuna regola, ed è incontrollato, come la fibrillazione cardiaca e, proprio come questa, può essere fatale”.
Ecco, il rampino d’aggancio per Kiefer con la tela per azionare l’atto creativo è il corpo-a-corpo con l’accumulo di paste cromatiche prima e materiali naturali e oggetti o frammenti di oggetti prelevati dalla realtà quotidiana poi: carboncino, gommalacca, colori, acrilici, corda, stoffa, carta cerata, cavi di metallo, legno cauterizzato, paglia, cartone, foglia d’oro, oggetti di zinco, acciaio, piombo, cuoio.
Quindi nella prassi, nella scelta della materia, dei materiali, nella tecnica compositiva e d’uso si comincia a compiere la selezione naturale delle idee. È proprio in questo dialogo tra materia e modi di esecuzione, prove e sperimentazioni per addizione o sottrazione, e anche da molti incidenti estetici fortuiti, dal caso, tra natura e alchimia, che si instaurano nuove relazioni tra l’esperienza concreta del mondo e la conoscenza di altre possibilità di verità.
Incorporando gli aspetti concreti in luogo di rappresentarli, nel tentativo di liberare le possibilità espressive della materia, con gesti e segni noetici forti, l’artista si immerge, si identifica in questo corpo che è la stessa carne del mondo, fino alle radici fanno tutt’uno con l’esistente materico degradato, ferito, emarginato, violentato; poiché, come meglio definito nel concetto di chiasma o intreccio nel dirla alla Merleau-Ponty: “…non siamo solo nel mondo ma anche del mondo”.
Ma in questa prima fase processuale fondamentale e intensa rivolta alla concretezza della materia, una materia con la quale il nostro artista esperisce una gettatezza e una fatticità creativa continua, aperta e inconcludibile in cui è trasfusa lo schiudersi e il ritrarsi della realtà….ad un certo punto Kiefer dice: “Tutto cambia quando mi allontano dalla tela: ora ho qualcosa davanti a me, il quadro è là, e io ci sono dentro. E subito arriva la delusione: mi accorgo che qualcosa manca, ma non so che cosa. L’opera, una volta chiarito che è manchevole e non finita, può aver senso solo se messa in relazione con qualcosa d’altro, che a sua volta sia incompleto: come la storia, la natura, la storia naturale”.
Kiefer sente di dover accedere a un livello di conoscenza più profondo; di fatto, attraverso il livello della materia sensibile, per tutti i segni e i gesti che pian piano danno luogo ad un quadro, sperimentando limiti, manipolando, amalgamando e contaminando la materia del mondo visibile nella propria totalità e pienezza assoluta, inoltrandosi nel senso nascosto attraverso cui le opere trascendono la loro oggettività e consentono di mettere in atto nel silenzio una contemplazione che com-prende una tras-formazione.
Da qui, senza staccarsi dal suo fare, Kiefer non ha timore ad attraversare quei primi accordi materici scardinati sul nulla originale, lasciando libera la funzione dell’arte ad esperirsi quale effettivo organo del filosofare. Ecco il perché della seconda parola mente che avevamo segnato in premessa.
Dalla vastità dei riferimenti storici e concettuali che caratterizzano il suo lavoro si avverte la vicinanza di Kiefer che incontra Andrea Emo, quale fondamento filosofico del suo metodo: il nulla non è qualcosa che precede l’essere, ma l’essere-e-il-nulla sono come inestricabilmente collegati.
“Tutto ciò corrisponde alla mia idea di creazione – dice Kiefer – Quando inizio a dare forma a un’immagine, so che tutto ciò che affronto contiene contemporaneamente la sua negazione. Non c’è alcun capolavoro, ma piuttosto l’avvio di una trasformazione in continua evoluzione. Quel nesso inscindibile di distruzione e creazione che vivo nella mia pratica artistica rigenerata in un continuum di opposti. L’esistenza è identica al nulla, che la pone a fondamento. L’essere e il nulla sono entrambi negarsi nel quale si nasconde l’essenza inafferrabile dell’arte stessa teorizzata nel nichilismo paradossale di Andrea Emo come: icona del Nulla”.
Il che corrisponde anche alla convinzione di Merleau-Ponty dell’uscita dal dualismo che si fonda sul fatto che il nesso corpo-mondo non è contrappositivo, ma di mutua inclusione.
Riavvolgiamo questo studio fin qui in sintesi. Attraverso l’esperienza di un movimento materico dell’arte che parte dal nulla, della coscienza di tale movimento e della traccia che resta sulla tela come simultaneità di un qualcosa e del nulla, il nostro artista rende sensibile l’invisibile, incarna, da corpo all’invisibile.
È necessario chiarire in questo passaggio rapido che la materia e il processo artistico del fare di Kiefer non ha liberato, emancipato la materia nell’opera, non ha annullato la realtà da cui proviene come scarto. La materia ha ancora fortemente traccia visibile della vita da cui proviene ma al contempo ora ha una nuova luce pura.
Arte, quindi, che non può essere fraintesa come fuga dalla realtà o alla stregua di una sua idealizzazione. Il visibile resta nell’invisibile. L’essere resta nel nulla….la trascendenza non è più una fuga dall’immanenza. Non è un mondo dietro al mondo, ma è una piega interna all’immanenza, come un unicuum, dunque, che si affida alla sensibilità di chi osserva e comprende di farne parte.
Andando in questa direzione, incontriamo gli effetti simbolici di una praxis non disgiunta da una mètis come quella operata da Kiefer che forzando i bordi materici legano l’anello dell’Esistenza-al-Senso.
“L’opera d’arte è tale – affermava Heidegger – se sa aprire un mondo“. Questa apertura si produce come una sorta di collasso del mondo già costituito. Perché l’opera svolga la sua funzione di apertura su di un altro mondo è necessario che venga sospeso il rapporto con il mondo già noto. Questa sospensione è un urto, un incontro imprevisto, una contingenza che colpisce.
Scrive Giuseppe di Giacomo: “con la sua teatralità, la sua monumentalità, con l’aggressività della sua materialità e la violenza del trattamento di cui le sue materie portano spesso la traccia, è indubbio che le opere di Kiefer si impongono fisicamente agli spettatori, provocando uno choc“.
L’incontro con un’opera è, come scrive Antoni Tàpies – a cui noi riteniamo Kiefer molto legato – l’incontro con un ferro che brucia la carne. È l’incontro con un evento che lascia «un’impronta reale. È ciò che Tàpies definisce come funzione paradossalmente pedagogica dell’opera: poter condurre il fruitore al di là dell’ultima porta. Solo in questo modo si legge la sua insistenza sul valore sociale dell’opera: risvegliare dal sonno, produrre l’incontro con il reale, produrre nel soggetto uno choc che rompa il legame abitudinario col suo proprio mondo. Per questo Tàpies può affermare che il valore dell’opera d’arte in sé è niente poiché un’opera se è tale appare piuttosto come un trampolino, un’apertura nuova, un’apertura verso l’incontro col reale.
Atti creativi, dunque, quelli di Kiefer in cui si iscrivono cicatrici indimenticabili, per costruire modi di vita possibili con la luminosità e la risolutezza di una folgorazione. Ossia l’intervento dirompente, irrompente, esplosivo, inesorabile per ri-apprendere la vita di nuovo per lo spettatore.
Con una formula molto rapida, la matericità di Kiefer è un’arte che continua i suoi effetti come un proiettile. Un’arte che ha la forza traumatica di una crivellatura del significante. Un significante che agisce nello spettatore marchiandolo a fuoco. Che tocca le viscere dello spettatore. Che va oltre a saper comprendere l’invisibile, nella compartecipazione al visibile. E la sua forza appunto è perché smaschera l’inganno dell’integrità o dell’interezza.
Laddove, nella vita reale, tutti noi crediamo di avere a che fare con positività da un lato e negatività dall’altro. Con quel che esiste e con quel che ancora non esiste o non esiste più. Crediamo di poterci muovere scegliendo il positivo o negativo, e di poterci disinteressare, di volta in volta, o dell’uno o dell’altro. Ma la sua arte ci mostra l’assurdità di una tale convinzione. Ci mostra come stanno veramente le cose, più reali di certi fatti scientificamente dimostrati.
E a palpitare e a vivere, a risuonare come origine nei dispositivi dell’artista tedesco è sempre e solamente la materia; ovvero le sue tensioni e le sue impossibili (in quanto assolute) contrapposizioni che il nostro artista plasma in virtù di un fare mai disgiungibile da un non meno decisivo dis-fare.
Ecco la determinazione per cui l’estetica di kiefer è anche affidabile custode rispetto alle infinite e ossessive domande della filosofia il cui rendere esplicito il pensiero che contiene ucciderebbe la stessa arte. L’arte allude al manifestarsi di quel che non vuole essere conosciuto; per questo teme chiunque si proponga di conoscerla o spiegarla, o di renderne ragione.
Perciò Kiefer non accetterà mai di venire qualificato come artista semplicemente concettuale. La sua è una lotta fatta di carne e sangue e la stessa materia di scarto del reale ora attivata, fecondata dal processo di senso dell’artista si è trasformata in resto. Dove nel nostro tentativo di decifrare il concetto di resto, osserviamo che il resto è, da una parte, qualcosa che si eredita (dalla vita), dall’altra il prodotto distinto dell’arte che provoca una ri-scrittura, una ri-segnatura, una re-impressione.
Il resto: una lotta faticosa, bagnata dal sudore, quella che Kiefer ingaggia senza esclusione di colpi con la forma; per distruggerla e costruirla in-uno. Per mostrare che non è mai ancora quel che deve, ma non può ancora essere; vale a dire: manifestazione dell’opposizione assoluta cui si vorrebbe dar voce senza riuscirvi. Anzi, sempre anche riuscendovi proprio nel non riuscirci. In questo fare paradossale del processo – che distrugge mentre crea, e crea mentre distrugge – rendendo l’immagine, la rappresentazione impossibile, si risalta il valore dell’esperienza come verità nell’atto stesso con cui rende evidente l’impossibilità del tutto.
Comprendiamo, dunque, sempre più il valore straordinario di artisti-intellettuali come Kiefer di una vita interiore di eccezionale ricchezza che hanno trasformato l’emergenza di tracce della vita nella propria firma, nel proprio geroglifico. Ora le loro opere assicurano l’andirivieni tra spirituale (ecco l’ultima delle parole segnate all’inizio) e temporale, rinnovando, ancora una volta, quel movimento gravitazionale che domina i loro dispositivi.
I suoi quadri sono nuove rovine, nuove macerie, nuova polvere, nuova cenere che non smette più di bruciare come direbbe Jacques Derrida in un illuminante saggio. Insomma, è solo dalle macerie prodotte da tale distruzione che possono generarsi delle parole nuove, nuovi spazi e nuovi rapporti, capaci di modellare la vera realtà; l’unica solida, cui ci si potrà sempre ancorare in caso di naufragio.
© copyright Sergio Mario Illuminato – Vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata