Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)
a cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera
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VITTORIO GASSMAN, regista-attore
Non sono romano, ma vivo a Roma da sessantaquattro anni; per questa città ho sviluppato un contrastante complesso di affezione e di ripugnanza. Credo che si tolga molto a Roma negandole la fisionomia di “ignobile ciabatta orientaleggiante”, è un luogo tra i più degradati del mondo che però si ostina a conservare un “fascino particolare”; e il cinema giustamente si è collocato in questa città, poiché anche nel cinema, a mio giudizio, si mescolano ignobiltà e grandi ideali.
Roma e il cinema sono ugualmente dei recipienti ibridati che possono raccogliere e cucinare minestroni con í più vari ingredienti. E questo va d’accordo col carattere romano, non è casuale che alcune grandi stagioni del cinema italiano siano state romane, fatalmente perché a Roma c’era il materiale di osservazione più evidente.
Per quanto riguarda Cinecittà direi che tutte le epoche del cinema sono passate da lì, dal western ai colossal americani…È uno dei posti oggettivamente più brutti che si possano immaginare, architettonicamente è terrificante; però si sente, c’è stata una vita predisposta per il cinema, è stata una buona fabbrica.
Oggi Cinecittà forse potrebbe, dovrebbe essere trasferita fuori da Roma, la vedrei meglio in un altro luogo perché questa città conserva il carattere di nata sopra le paludi, navigata solo da curiosi canotti adatti alle paludi, è un turpe interessantissimo canale con i sorci, con le pantagane, i gattacci
Io la vedo così Roma, e la amo anche per questo. Giustamente Fellini l’ha chiamata “la gran puttana”, la babilonia sul Tevere, e così va presa, o lasciata… Rifondarla? Beh! Roma se ne fotte di tutti.
Flaiano dove se non in questa città avrebbe potuto inventare Un marziano a Roma? Se oggi arrivasse qui un marziano, dopo tre giorni nessuno lo inviterebbe. più neanche in birreria. Sempre Flaiano raccontava l’aneddoto del giorno del giubileo, quando durante la cerimonia dell’apertura della porta, con le chiavi d’oro, per mano dei Pontefice, giunto con i flabelli, i carri, le musiche, ad osservare c’è il solito giovinastro…l’organo cessa di suonare, il momento è solennissimo, il Papa gira la chiave nel portone e il giovinastro dice: “e no’ o’ potevo fa’ io!”
In tutto questo c’è una vena culturale sì, ma di stampo negativo, algebrico, è una città molto complicata da capire. Osserviamo per esempio il pubblico romano: in genere abbastanza intelligente e pronto, e rapido di riflessi e adatto allo spettacolo, perché bene o male gli è rimasta qualche eco remota del circense.
Io l’ho osservato bene lo spettatore romano, ha una sua fisionomia molto particolare, impastata: di scetticismo e di cinismo, sentimenti e qualità tipiche dei romani. Il romano non siede a teatro, come tutti gli altri spettatori, perfettamente ortogonale alla scena, no, siede un po’ in diagonale, come per dire: e’mbè! No’ o’ potrei fa’ io? E anche quando vai a girare in esterni a Roma, ti lasciano tranquillo, sono disincantati, tanto sono convinti che potrebbero farlo anche loro; io sono un attore conosciuto, abito qui da tantissimi anni, e se cammino per la strada, o se anche mi trovano a girare la scena di un film, non mi molestano perché se ne fottono, sento nei miei riguardi, cosa che accade tristemente in età avanzata, persino dell’affetto.
Sono disincantati, ci sono dentro, è cosa loro. In effetti il romano in parte ha ragione, c’è una meta-teatralità nel carattere romanesco: la prontezza della battuta, la struttura stessa del dialetto romanesco sono teatrali. Il commedione di Giuseppe Gioacchino Belli è il titolo giusto per indicare una raccolta di poesie che è anche una forma di teatro, i motti di spirito, il vernacolo anche turpe, la bestemmia romana hanno una notevole valenza teatrale, e questo fa del romano uno degli spettatori più difficili del inondo.
Se si riesce a perforare il muro di indifferenza da cui lo spettatore romano parte, si può star certi di aver dato una cosa vitale. Il romano è scettico, tanto da giungere al punto di non andare più al teatro. Il teatro più moderno ha stimolato nuove fasce di pubblico che si sono mescolate a quelle scettiche e le nuove sono migliori, un po’ irrequiete, a volte maleducate, rumorose, però vitali rispetto al pubblico tradizionale, quello borghese che sta morendo di vecchiaia e anche di stanchezza e pigrizia; il rinnovamento è necessario e benvenuto ma comunque, ne sono convinto, stiamo attraversando teatralmente parlando un pessimo periodo.
Quando è venuta la proposta del Teatro di Roma di assumere la direzione artistica ho riflettuto a lungo…ho dovuto dire di no, mi conosco, so di non essere uomo da strutture, egoista forse, ma non intendo passare i miei prossimi settanta-ottanta anni di attività che ho di fronte, a rattoppare conti, ad inseguire la burocrazia e tutto il resto; no non mi va. Vorrei una vecchiaia estremamente ludica, libera ed autonoma come del resto fino ad oggi è stata la mia vita, non ho mai appartenuto ad un partito, ad una gang o simili, sono un freelance, un autonomo che da vecchio vuole fare il zuzzurellone giocatore.
Comunque, tornando a Roma, negli anni ’50 e ’60 era sicuramente la città più bella, più vivibile e più intensa del mondo; oggi non lo è più, se arriva un amico straniero dove lo porti? a mangiare la coda alla vaccinara, e poi? In quegli anni Roma era una città di grandissimo fervore artistico, c’era gente. Ora i suoi scandali, i suoi caffè sono spariti.
Io so che la mia formazione è avvenuta principalmente a Via Veneto al Caffè Rosati, dove frequentavo De Feo, Flaiano, Pannunzio, francati, Cardarelli…oggi non solo quella gente è morta, ma in quel luogo c’è una banca.
I giovani mi fanno veramente un po’ pena, perché le difficoltà che devono affrontare prescindono dalla loro volontà, dalle loro qualità. Oggi un giovane che non ha un’etichetta politica o un’appartenenza ad una ghenga, si muove in un ginepraio niente affatto facile.
L’ambiente del cinema romano finalmente sta cambiando, sta nascendo il nuovo cinema italiano, e ne sono oggettivamente contento, anche perché era diventato imbarazzante per gli attori della mia generazione: Mastroianni, Sordi, Tognazzi, Manfredi, non avere un ricambio e il cinema italiano finiva con l’avere sempre dei protagonisti vecchi.
C’è stato un ricambio culturale e linguistico. È cambiata proprio la lingua dei giovani, e per trattare i loro temi ed i loro problemi bisogna prima apprenderla.
E così perfino Roma col suo fardello di pigrizia e di mollezza, non sta ferma, le paludi romane in qualche modo si muovono.
Roma ha tutte le malattie bibliche: Ministeri, Televisione, Vaticano, forze miste sommerse o emerse, il clima che forse abbiocca un po’ tutti e il traffico che ci impedisce di incontrare gli amici, è una città che non facilita i contatti, non ha più i caffè, spesso nella mia vita mi è venuta voglia e c’è stata anche qualche penosa realizzazione embrionale, di creare luoghi dove potersi trovare, perché qui mancano più che in qualsiasi altra città.
La cultura è un fatto collettivo, è scambio. Insomma, adesso si tratterebbe di ricreare, come di rifondare una città, io noto, ma questo lo fanno anche i bambini, che la parola Roma letta al contrario è amor, però è un amor tronco.
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