Suso Cecchi D’Amico, sceneggiatrice

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)
a cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera

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SUSO CECCHI D’AMICO, sceneggiatrice

Sono cresciuta col cinema in casa. Mio padre, Emilio Cecchi, negli anni ’30 scrisse di Hollywood e di cinema nelle sue corrispondenze dall’America per il Corriere delle Sera. Forse fu questo a dare a Ludovico Toeplitz, un banchiere che volle rifondare la Cines di Pittalunga, l’idea di invitare mio padre a prendere la direzione artistica di quell’impresa. Mio padre accettò, e fu così che dal cinema dei “telefoni bianchi” si passò a “1860” ed alla “Tavola dei poveri” di Alessandro Blasetti, agli “Uomini che mascalzoni!” di Mario Camerini, ad “Acciaio” di Ruttman, a “La borsa o la vita” di Carlo Bragaglia. 
Registi, sceneggiatori, qualche attore anche, incominciarono allora a frequentare la nostra casa, e continuarono a venire anche quando, dopo più di un anno, mio padre lasciò l’incarico alla Cines.
L’esperienza lo aveva appassionato e divertito, ma gli prendeva troppo tempo impedendogli di scrivere. Si limitò dunque, da allora, a collaborare ad alcune sceneggiature, o consigliare chi, come Carlo Ponti, un giovane avvocato di Milano, aveva in animo di fare del buon cinema. Capitava a volte che mio padre ed i suoi collaboratori volessero sentire, su una sceneggiatura, la reazione di un giovane, e me la davano a leggere. L’ho fatto anch’io con i miei figli. Le mie osservazioni non dispiacquero a Ponti e a Renato Castellani che un giorno mi chiesero: “Perché non partecipa a questa sceneggiatura? Ci provi”. Ed io ci provai.
Sono pienamente consapevole di avere avuta la strada estremamente facilitata. A questo va aggiunta la considerazione che la mia è stata una generazione persa d’amore per il cinema. Chaplin, Buster Keaton, Douglas Fairbanks, Marj Pickford, i Barrymore, e poi Ramon Novarro; Roman Collman, che passioni! Collezionavamo le loro fotografie formato cartolina.; correvamo al primo spettacolo del pomeriggio appena usciva un loro film, e non uscivamo più fino all’ora di cena, per rivederlo due o tre volte di seguito. Mentre i “grandi” discutevano se dare la palma alla Garbo o a Marlene Dietrich, attrici entrambe molto più amate dagli adulti che da noi giovanissimi. Anche il primo René Clair fu più amato dagli adulti che da noi.
Nel momento più caldo di questa infatuazione per il cinema, l’avventura di mio padre direttore artistico della Cines, mi consentì il libero accesso nei teatri di posa e mi diede la possibilità di assistere alle riprese, e aggirarmi nei magazzini, nei laboratori. Si può dire che il “mestiere” incominciai ad impararlo lì.
A Roma c’era la Cines, è vero, che non forniva però strutture così straordinarie da ritenere impensabile di crearne altre altrove. Tanto vero che durante il fascismo ci provò Forzano a Tirrenia, e con vero successo. Invece si restò a Roma, in questa città indifferente, priva di ardore, anche quando per ragioni di costi (e non soltanto per esigenze artistiche) non si girò più nei teatri di posa, ma per le strade, dove si andarono a cercare anche gli interpreti dei film neorealisti. Tirrenia fu lasciata morire, ed il tentativo che fece Carlo Ponti negli anni ’50 di rilevarla, si rivelò un investimento che non mirava a ricostituire un nuovo centro di produzione cinematografica.
Il cinema è rimasto dunque “romano” anche se i cineasti romani sono una minoranza.
Il primo film alla sceneggiatura del quale collaborai nel 1945 era finanziato da Riccardo Guatino torinese, prodotto da Carlo Ponti milanese, Renato Castellani regista milanese d’adozione, sceneggiatori Ennio Flaiano che veniva da Pescara, ed io che sono toscana, anche se sono nata a Roma. Renato Castellani non era un “improvvisatore”. Dell’architetto egli aveva conservato la passione per la costruzione su solide basi, scrupolosamente studiate e calcolate. Nel suo primo film, “Un colpo di pistola”, si vide subito che preparazione eccezionale egli avesse. Castellani, come Luchino Visconti, erano registi che prima di mettersi dietro la macchina da presa, si erano voluti impadronire delle tecniche, al punto che sarebbero stati in grado di sostituire qualsiasi elemento della compagnia: sceneggiatore, scenografo, costumista, operatore ecc….
Renato Castellani m’insegnò che prima di pensare di scrivere una sceneggiatura era necessario studiare a lungo l’ambiente in cui la storia narrata nel soggetto si svolgeva, e sapere tutto, presente, passato e futuro dei suoi personaggi. Passavamo settimane, addirittura mesi a discutere prima di cominciare a scrivere la sceneggiatura vera e propria. Ed è questa lunga fase di lavoro che mi è sempre piaciuta di più in tutti i film ai quali ho in seguito collaborato. Quelle riunioni, discussioni, tra regista e sceneggiatori, hanno poi portato alla maturazione di straordinarie amicizie tra di noi. Mi viene il sospetto che le giovani generazioni abbiano cambiato metodo di lavoro, perché non sento tra loro quella solidarietà e amicizia che c’è ancora tra noi anziani.
Peccato che il Governo non ne abbia approfittato. Il Governo ha per molto tempo guardato con sospetto al cinema, ostacolandolo quanto più ha potuto. Quando finalmente si è accorto che l’influenza che poteva esercitare il cinema era ben poca cosa rispetto a quella della neonata televisione, non si è più degnato neppure di ostacolarlo. Gli è servito per sistemare qualche raccomandato che non aveva altra collocazione. Quando negli anni ’60 chiedemmo per esempio che fosse messo uno dei nostri registi anziani e famosi, Mario Camerini, a dirigere gli Enti di Stato, Istituto Luce, Cinecittà, la di cui competenza avrebbe costituito una guida sicura, non si degnarono neppure di risponderci, e assistemmo alle prime distribuzioni di cariche agli incompetenti, secondo le ripartizioni imposte dalla lottizzazione.

Negli anni ’50 avremmo voluto fare esperienza di televisione, ed io ebbi a questo proposito un’idea che mi sembrava eccellente: quella di dare ai nostri maggiori registi una possibilità di sperimentare il mezzo realizzando un episodio di un’ora, su una sceneggiatura già pronta e da loro approvata. Gli episodi dovevano fare parte di una specie di storia del costume tratta da cronache d’epoca, che dovevano essere rigorosamente illustrate, così da porre l’accento sugli usi e abitudini. Luchino Visconti aveva scelto per sé un episodio raccontato da Casanova nelle sue memorie, lo smacco subito da un Casanova già anziano, mentre Luigi Comencini aveva scelto il racconto del parto della Delfina alla corte di Luigi XIV tratto dalle memorie di Saint-Simon, Germi aveva una pagina dal viaggio in Italia di Goethe ecc… Portai il progetto all’allora direttore generale della RAI Ettore Bernabei, ma non se ne fece nulla. Penso a volte che l’ingresso di registi di quella portata avrebbe potuto lasciare un’impronta nella televisione.
Parecchi anni dopo il “Luigi XIV” di Rossellini mi dette la magra soddisfazione di constatare quando valida fosse quella mia idea. In seguito, ho avuto occasione di scrivere qualcosa per la televisione, “Pinocchio” con Comencini, “Gesù di Nazareth” con Zeffirelli, ma li ho scritti come fossero testi per film. La mia speranza è quella di continuare ancora a fare questo lavoro e di avere la fortuna di essere chiamata a collaborare a qualche bel progetto. I film non nascono più dall’idea proposta da uno scrittore di cinema. Pur essendo rimasto un artigianato, il cinema ha preso tutti i vizi di un’industria, e si muove secondo le leggi di mercato.
Il ruolo dello sceneggiatore, o dello scrittore cli cinema come preferirebbe di essere chiamato, è un po’ sbiadito. Eppure, furono gli sceneggiatori italiani ad affiancare e spingere avanti fino a mettere su un piedistallo, il loro collega regista. Nel cinema americano, quello degli “Studios”, non parlo cioè dei fuoriclasse come Chaplin, Griffith, Stroheim, ecc.…, il vero autore di un film era il produttore che ordinava, seguiva, calibrava le sceneggiature, sceglieva gli attori ed i tecnici, il regista non doveva fare altro che girare le inquadrature per i quali era spesso disegnata nella sceneggiatura la posizione della macchina da presa.
Quando durante la guerra. Renoir emigrò in America, venne licenzialo il secondo giorno della lavorazione di un film, perché non rispettava quelle regole; mentre René Clair le accettò e realizzo disciplinatamente “Ho sposato una strega”.
Il nuovo cinema americano è nato sul modello del cinema italiano, del neorealismo. I registi americani abbandonarono Hollywood e gli Studio ed incominciarono a raccontare con piglio da cronista i loro romanzi. Venivano tutti da scuole eccellenti, i nostri invece erano tutti autodidatti, ma le ossa se le erano fatte lo stesso, e come! Realizzando dei buoni film: Genina, Rossellini, Visconti, De Sica, Castellani. Molti di loro hanno fatto dopo la guerra i loro film più belli e famosi. Ma nessuno li ha fatti da principiante, e la differenza fra loro e la maggior parte dei giovani registi di oggi è tutta qui.
Il minimalismo è il risultato non tanto dell’intimismo voluto dalle storie che scelgono quanto dalla involontaria povertà di linguaggio di cui dispongono per narrarle. Nessuno vuole più fare a lungo la gavetta, nessuno vuole lavorare più di tanto su un’idea, nessuno si tiene a continuo contatto con lo sceneggiatore come facevano anche quei registi che poi dichiaravano di non aver avuto una vera e propria sceneggiatura. Il giovane regista che ha “studiato” si riconosce subito, come si riconosce subito la tecnica di un pianista appena posa le dita sui tasti dello strumento.
Il guaio è che i giovani oggi vogliono tutto subito, ed il cinema, per farlo bene, richiede pazienza. Mio padre diceva che per scrivere bisogna aiutarsi dandosi tempo, tutto il tempo possibile. Altro che computer. Per lui fu un dispiacere anche la biro, che rese inutili le pause fino ad allora necessarie per inzuppare la penna nell’inchiostro. De Chirico disse una, volta che la pittura è finita il giorno in cui il pittore non ebbe più a prepararsi da solo i colori, partendo dalle polveri, dagli otri, dagli ossidi minerali. Non è un paradosso.

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